Uno sguardo, a volte basta uno sguardo per accorgersi che chi amiamo si sta allontanando, non è più con noi.
La sensazione che ci assale impedisce qualsiasi pensiero. Sembra quasi che le parole sfuggano dalla bocca, senza volerlo e, con una loro autonomia, si articolino in una domanda banale lanciata lì, per caso: “Cos’hai?”. E la risposta che già conosciamo giunge di rimbalzo: “Niente, perché?”.
Un’affermazione e una domanda che troppo rapidamente irrompono nel silenzio di sguardi e di contatti evitati.
Un parlare che, apparentemente, non ha senso, un “niente” che non ammette repliche e che attiva un percorso di distacco reciproco. Rispondere a una domanda con un’altra domanda significa ignorare la curiosità, la complicità, l’interesse di chi vorrebbe rompere l’angoscia del silenzio.
Per chi ascolta è il segno di una ulteriore provocazione, di una falsità a cui bisogna dare un freno e quindi i “Niente, perché?” sono dardi che recano un messaggio ben chiaro: “Non voglio dirtelo, o più semplicemente non sono fatti tuoi”. Una chiusura, una porta sbarrata per non far entrare chi vorrebbe curiosare e quindi scoprire cose che non si vorrebbero far conoscere.
Tra queste, il timore di essere stati sorpresi a vagare in un mondo lontano da quello della complicità, la vergogna per certi pensieri o il pudore per certe azioni e, ancora, quel vago senso di colpa che, come un mostro impazzito, non sa ancora chi colpire. Continuare a parlare solo per fare domande, nella speranza di poter dare risposte alle fantasie angosciose, significherebbe lamentarsi, forse impietosire, per poi accettare risposte che accarezzano solo superficialmente il bisogno di sicurezza.
Impedirsi di chiedere è un modo per non lasciare spazio ai dubbi, per negare le sensazioni provate, per continuare a credere più all’altro che a se stessi.
Luigi de Maio, Tradire