POESIE E PROSA DI EUGENIO MONTALE

Al mare (o quasi)

l’ultima cicala stride
sulla scorza gialla dell’eucalipto
i bambini raccolgono pinòli
indispensabili per la galantina
un cane alano urla dall’inferriata
di una villa ormai disabitata
le ville furono costruite dai padri
ma i figli non le hanno volute
ci sarebbe spazio per centomila terremotati
di qui non si vede nemmeno la proda
se può chiamarsi così quell’ottanta per cento
ceduta in uso ai bagnini
e sarebbe eccessivo pretendervi
una pace alcionica
il mare è d’altronde infestato
mentre i rifiuti in totale
formano ondulate collinette plastiche
esaurite le siepi hanno avuto lo sfratto
i deliziosi figli della ruggine
gli scriccioli o reatini come spesso
li citano i poeti. E c’è anche qualche boccio
di magnolia l’etichetta di un pediatra
ma qui i bambini volano in bicicletta
e non hanno bisogno delle sue cure
Chi vuole respirare a grandi zaffate
la musa del nostro tempo la precarietà
può passare di qui senza affrettarsi
è il colpo secco quello che fa orrore
non già l’evanescenza il dolce afflato del nulla
Hic manebimus se vi piace non proprio
ottimamente ma il meglio sarebbe troppo simile
alla morte (e questa piace solo ai giovani).
***

Nell’anima dell’uomo

Nell’anima dell’uomo si alternano sistole e dia-
stole, turbamento e tranquillitá, gioia e angoscia,
speranza e disperazione. Fuori dell’anima del-
l’uomo (posto che esista un fuori) l’alternarsi delle
stagioni. II brutto tempo e il sereno, la guerra e la
pace, la rivoluzione e la restaurazione, il progresso
tecnico e il presunto regresso morale, le belle arti
e le brutte arti, l’opulenza e la fama presentano
una gamma non meno differenziata. Che cosa
muove l’uomo? La biologia o la dialettica? Ne
l’uno ne l’altra offrono consolazione. All’uomo
importa mediocremente di sapere che forse un
giorno si potrá creare un suo facsimile partendo
da procedimenti in vitro; all’uomo dice poco o
nulla apprendere che si sono scoperte due nuove
galassie; all’uomo e del tutto indifferente la no-
tizia che nel suo spirito funziona un meccanismo
di tesi, di antitesi e di un babau finale che non
si sa che cosa sia. Che la storia sia un succedersi
di fatti naturali (cosi come sono naturali la piog-
gia e il buon tempo) oppure il dispiegamento di
uno spirito del quale non si sa come e perché
l’uomo stesso sarebbe partecipe o addirittura
creatore, ecco un’idea che interessa pochissimo
l’uomo. Tuttavia, si osserva, all’uomo importa
assai la propria libertá personale e tutta la sua
storia e affrancamento a secolari schiavitù. La
Vita (stavolta con la maiuscola) conterrebbe dun-
que una freccia, un’indicazione. Chi segue la
freccia cammina nel senso della vita, chi ignora
o trascura la freccia si muove in una direzione
del tutto diversa o anche opposta (e con questo?
Che male ci sarebbe? obiettano altri).
Se la freccia significa libertá e facile dire che
l’indifferenza e la maggiore delle libertá possibili,
ma anche la più paurosa. Mai l’uomo ha deciso
qualcosa devota proprio senza un profondo sgo-
mento. Se qualcosa da pace all’uomo e il sentirsi
agito, mosso, necessitato. Lo sanno bene gli sto-
rici e particolarmente alcuni filosofi, per i quali
tutto quello che accade ha sempre ragione e
quello che non accade ha sempre torto. Solo gli
scienziati (non tutti naturalmente) sanno che se
la storia è natura essa non presenta alcuna freccia.
Se poi la storia non è natura, allora non si vede
come possa darsi il rovesciamento della natura o
anche l’inosservanza della natura.Tra due fatti
o entità che si ignorano è ben difficile che possa
esistere convivenza o collaborazione.

Eugenio Montale
***
La vita che si rompe nei travasi
secreti a te ho legata:
quella che si dibatte in sé e par quasi
non ti sappia, presenza soffocata.

Quando il tempo s’ingorga alle sue dighe
la tua vicenda accordi alla sua immensa,
ed affiori, memoria, più palese
dall’oscura regione ove scendevi,
come ora, al dopopioggia, si riaddensa
il verde ai rami, ai muri il cinabrese.

Tutto ignoro di te fuor del messaggio
muto che mi sostenta sulla via:
se forma esisti o ubbia nella fumea
d’un sogno t’alimenta
la riviera che infebbra, torba, e scroscia
incontro alla marea.

Nulla di te nel vacillar dell’ore
bige o squarciate da un vampo di solfo
fuori che il fischio del rimorchiatore
che dalle brume approda al golfo.

(Eugenio Montale, Ossi di seppia)
***

Passeggiavo nel corridoio, in pantofole e pigiama, scavalcando di tanto in tanto un cumulo di biancheria sudicia. Il mio albergo era di prima categoria perchè aveva due ascensori e un montacarichi (quasi sempre guasti) ma non disponeva di un ripostiglio per lenzuola, federe e asciugamani in provvisorio disuso e le cameriere dovevano ammucchiarli qua e là negli angoli morti. A notte inoltrata in quegli angoli morti arrivavo io, e perciò le cameriere non mi amavano. Tuttavia, dopo aver dato qualche mancia, avevo ottenuto il tacito permesso di deambulare dove volevo. Era la mezzanotte passata. Trillò piano un telefono. Che fosse nella mia stanza? Mi avviai con passi felpati ma sentii che qualcuno rispondeva; era al numero 22, la stanza vicina alla mia. Stavo per ritirarmi quando la voce che rispondeva, una voce di donna, disse: “Non venire ancora, Attilio: c’è un uomo in pigiama nel corridoio. Passeggia in su e in giù. E potrebbe vederti”.
Sentii dall’altra parte un confuso gracidio. “Mah?” ripose lei “non so chi sia. È un disgraziato che fa sempre così. Non venire, ti prego. Semmai ti avviso io.” Riattaccò con un tonfo, udii passi nella camera. Mi allontanai d’urgenza scivolando come sui pattini. In fondo al corridoio c’era un sofà, un secondo cumulo di biancheria e un muro. Sentii la porta della camera 22 aprirsi; da uno spiraglio la donna mi osservava. Là in fondo non potevo restare; tornai indietro lentamente. Avevo circa dieci secondi di tempo prima di passare davanti al 22. Fulmineamente esaminai le varie ipotesi possibili. 1) Tornare nella mia stanza e chiudermici dentro; 2) idem con variante, informando cioè la signora che avevo sentito tutto e che intendevo farle cosa grata ritirandomi; 3) chiederle se proprio ci teneva a ricevere Attilio o se io ero un pretesto da lei scelto per esimersi da un non grato bullfight notturno; 4) ignorare il colloquio telefonico e continuare nella mia passeggiata; 5) chiedere alla signora se intendeva eventualmente sostituirmi all’uomo del telefono ai fini di cui al numero tre; 6) esigere spiegazioni sul termine “disgraziato” col quale aveva creduto di designarmi; 7) … la settima stentava a formarsi nel mio cervello. Ma ormai ero davanti allo spiraglio. Due occhi neri, una liseuse rossa su una camicia di seta, una capigliatura corta ma piuttosto ricciutella. Fu un attimo, lo spiraglio si richiuse di colpo. Il cuore mi batteva forte. Entrai nella mia camera e sentii il telefono trillare ancora al numero 22. La donna parlava piano, non sentivo le parole. Tornai nel corridoio con passo da lupo e allora qualcosa riuscii a distinguere: “È impossibile, Attilio, ti dico ch’è impossibile…”. Poi il clac del ricevitore riattaccato e il passo di lei verso la porta. Con un salto mi pecipitai verso il cumulo d’immondizie numero due, rimuginando in cuor mio le ipotesi 2, 3, 5. Lo spiraglio si aperse ancora. Fermo là era impossibile restare. Mi dissi: sono un disgraziato, ma lei come ha fatto a saperlo? E se passeggiando la salvassi da Attilio? Oppure salvassi Attilio da lei? Non sono fatto per essere l’arbitro di nulla, tanto meno della vita degli altri. Tornai indietro trascinando una federa con una pantofola. Lo spiraglio era più largo, la testa ricciuta sporgeva di più. Ero a un metro da quella testa. Mi irrigidii sull’attenti dopo essermi liberato con un calcio dalla pantofola. Poi dissi con voce troppo forte che rintronò nel corridoio: “Ho finito di passeggiare, signora. Ma come sa che sono un disgraziato?”. ”
Lo siamo tutti” disse lei e richiuse la porta di scatto. Trillò ancora il telefono nell’interno.

***

1. Seguo la spalliera dei rampicanti fino al luogo
dove l’anno scorso viveva una piccola famiglia di
porcospini. Erano molto timidi; solo il padre di
tanto in tanto si poteva vedere a tarda notte. En-
trava in cucina dove gli facevano trovare una
porzione di spaghetti. Agli altri alimenti provve-
deva da se’. Quest’anno al posto dei porcospini
c’è una gabbia di criceti. Dentro la gabbia si
vede un tapis roulant sferico; un criceto, entran-
dovi, fa ruotare la sfera; egli cammina veloce-
mente restando sempre fermo nello stesso punto.
Se prendesse coscienza di se’, si crederebbe libero.

2. Non vorrei se ne inferisse che la situazione
dell’uomo e quella del criceto siano press’a poco
eguali. Pure, se mi spingo addietro col ricordo,
non trovo che la ricerca della libertà sia stato uno
dei motivi fondamentali della mia vita. Mi sono
trovato di fronte a molte opzioni ma in nessuna
di queste era scritta la magica parola libertà.
L’apologo dell’asino di Buridano che, incerto tra
il mangiare e il bere, si lascia morire di fame e di
sete, rende onore all’uomo pienamente razionale
che non fa nulla senza una precisa ragione. Invece
l’uomo reale opta cento volte al giorno e quasi
sempre non per motivi razionali. La via ch’egli
sceglie non è la migliore ma la più facile; non è
la più vera ma quella meno libera. L’uomo cerca
dei corresponsabili, siano questi altri uomini o
prevedibili eventi. Donde la fondatezza psicolo-
gica del marxismo che proietta in un lontanis-
simo avvenire l’ipotesi della libertà umana, e in
pari tempo educa l’uomo a sapersi e sentirsi agito
e pensato da una forza maggiore di lui o anche
semplicemente diversa da lui. In altri tempi i
comandanti di navi da guerra andavano a picco
con la loro nave dopo aver salvato l’equipaggio.
Essi erano i depositari di una responsabilità e
per questo erano rispettati. Ma si potrebbe anche
immaginare una civiltà che affonda dopo che i
suoi capi hanno già fatto le valige.

(Ogni riferimento ai nostri tempi e ovviamente da escludersi).

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