NON TI MUOVERE * MARGARET MAZZANTINI

Dimagrirà accanto a te e ti riporterà a casa. E quando ti ricresceranno i capelli, lei taglierà i suoi. E quest’estate vi farete una foto con i capelli corti e gli occhiali da sole, come due sorelle.
Ti lascio a lei. Vi lascio vive, attaccate. Come quindici anni fa in quella clinica.
«Torno tra un po’» e le bacio la testa.
Adesso sono io che vi guardo oltre il vetro, accanto alla tenda di plastica.
Non mi chiese mai nulla di quell’assenza, fece come se non mi fossi mai mosso. Ti infilammo dentro il porteenfant e ce ne andammo a casa. E quando ti cadde il cordone, tornammo in quella pineta e lo lasciammo nella forca di un tronco, per portarti fortuna. Io la amo, Angela. La amo per come è stata, e per come siamo. Due vecchi podisti in marcia verso un traguardo di polvere.
***

Ho il tuo anello al medio, è entrato, non so quando, ma è entrato, e adesso non riesco più a sfilarlo. Piove. Sotto la pioggia in un angolo di questa città ho amato Italia per l’ultima volta. Quando piove, ovunque lei sia, sono certo che rimpiange la vita. Faceva parte di me come una coda preistorica, qualcosa mutilato dall’evoluzione, qualcosa di cui conservo l’alone, come una misteriosa presenza nel vuoto.

***

C’è tua madre nel vetro. Il suo cappotto, la sua borsa, la sua faccia. Tua madre che odia gli ospedali, che non sa come sono fatti, che non è mai entrata in un reparto di rianimazione. C’è una tenda di plastica bianca tirata da una parte, lei è lì accanto. Sta guardando te. Forse è già qui da un po’. Ho mosso gli occhi e l’ho trovata, per caso, pensavo fosse un’infermiera. È bassa, e spettinata, è vecchia. E sai cos’è, Angela? Sai cos’è, con quella faccia da nonna? È una madre che guarda attraverso il vetro di una nursery. È esattamente così. Una madre in vestaglia, con il seno dolorante di latte, che guarda il suo neonato, la sua scimmia rossa. Ha quegli occhi lì, di una con la pancia floscia e vuota che spia la carne che è uscita da lei. Non è triste, è ebete. Non entra, resta lì. Mi alzo e vado da lei. La stringo, è un fagotto che trema. È odore di casa in questo deserto di ammonio.

***
La tua testa bendata scivola sotto verso la rianimazione. L’infermiere spinge la barella adagio, con cautela. Ora sei tra queste pareti di vetro. Guardo i tuoi occhi chiusi, e il lenzuolo che si muove sul tuo petto. Guardo se respiri. Ada ti ha staccato dal respiratore, ti ha tolto l’anestetico, sta cercando di riportarti un po’ a galla per vedere che succede. Si muove intorno a te, ai tuoi tubi, con una premura speciale. È pallida, tirata, ha le labbra secche. «Vada» sussurro. Obbedisce a malincuore. Ora sei di nuovo con me, Angela. Siamo soli. Ti carezzo il braccio, la fronte, carezzo tutta la pelle libera che hai.
***

Per la tua festa ti compro un cappello. ti compro cento cappelli. I tuoi amici ti verranno a trovare, ti troveranno buffa con questa benda. Ti invidieranno perché salti la scuola. Ti porteranno la musica sul letto. Ti porteranno anche una sigaretta. Te la porterà quello piccolo, quello stronzetto con i capelli rossi, quello che ti arriva alla spalla. È il tuo fidanzatino quello? Mi piace, mi piacciono i suoi capelli. Mi piace tutto quello che piace a te. Affitterò i pattini, sai. Neri, pieni di ruote come i tuoi. Voglio pattinare con te sui viali nelle domeniche ecologiche. Voglio cadere, voglio farti ridere. Hai uno strano singhiozzo nel petto. Ti riattacco al respiratore, non ti muovere. Invece ti muovi. Mi stringi la mano.
«Mi senti? Se mi senti, apri gli occhi, amore. Sono io, sono papo.»
E tu li apri, li apri senza fatica, come se fosse semplice semplice. Snudi il bianco e il nero degli occhi e mi guardi.
Ada mi arriva alle spalle:
«Cosa c’e?» Forse non se n’è accorta, ma ha gridato.
Non smetto di guardarti, di sorridere nel bagnato.
«Ha reagito» dico, «mi ha stretto un dito.»
«Potrebbe essere solo un riflesso di prensione forzata…»
«No, ha aperto anche gli occhi.»
***

Mio padre era morto, portato via per sempre. Era caduto per strada, un infarto. E io non ero più un figlio. Il completo di lino chiaro, la faccia nel buio. Adesso anch’io ero un fantasma. Tornai a voltarmi verso la festa. Spiavo, oltre il sipario di quello spettrale giardino, i miei amici. Ci conoscevamo dai tempi fragili degli ideali, delle barbette da stambecchi. Che cosa era cambiato? Lo spazio intorno a noi, quel vento che ci sbatteva ovunque, quando abitavamo zone aperte. Un mattino avevamo chiuso le finestre, la primavera finiva, il corpo di una rondine galleggiava nella gronda. Di botto ritirati in noi stessi. La rasatura nello specchio e sotto la lama la faccia dei nostri padri, la faccia di chi avevamo deriso. Eravamo cravatte nel mondo, onorari, commercialisti, e discorsi che virano.
***

Gli spaghetti erano davvero buoni, Angela. Gli spaghetti più buoni della mia vita. Mangiavo sotto lo sguardo vigile di Italia che non si perdeva un solo moto del mio appetito, lo assecondava con gli occhi, con piccoli assestamenti delle spalle, delle braccia. Sembrava che mangiasse a sua volta, che assaporasse con me ogni boccone.

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