I libri sono per loro natura strumenti democratici e critici: sono molti, spesso si contraddicono, consentono di scegliere e di ragionare. Anche per questo sono sempre stati avversati dal pensiero teocratico, censurati, proibiti, non di rado bruciati sul rogo insieme ai loro autori. Non è stata solo la santa Inquisizione romana a perseguitare le idee contenute nei libri. Anche Paolo di Tarso era favorevole al fatto che i libri venissero bruciati in piazza; secondo una leggenda araba il califfo Omar avrebbe ordinato la distruzione delle preziose collezioni di libri di Alessandria perché «inutili» se conformi, nel contenuto, a quanto già si può leggere nel Corano; dannosi se in contrasto con esso. Dunque, in un caso e nell’altro, via.
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Secondo Locke, le parole sono segni delle idee e poiché ogni idea è segno di una cosa, le parole sono segni dei segni delle cose. Gioco di parole piacevole ma anche pregnante. Locke ci dice che il linguaggio, segno convenzionale delle idee, è lo strumento attraverso il quale l’uomo indica il proprio pensiero e contrassegna la realtà. Con il tempo questo strumento si è perfezionato grazie all’acquisita capacità di trasferirlo su un supporto materiale, dal rotolo di un papiro allo schermo di un computer, insomma di renderlo permanente, scrivendolo.
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Qualche pagina fa ho citato la frase di Stéphane Mallarmé: «Il mondo è fatto per finire in un bel libro». Posso citare un’altra sentenza di significato opposto, pronunciata da Franz Kafka, che un giorno, conversando con un amico, disse: «Un libro non può sostituire il mondo. Un uomo, per esempio, non può approfondire le proprie esperienze attraverso la personalità di un altro. È questo il rapporto fra il mondo e i libri». Chi dei due è nel giusto? Credo entrambi. Kafka aveva ragione perché di qualunque cosa parli nei suoi romanzi, parla in realtà solo di se stesso, racconta il mondo per raccontarsi, descrive, per esempio, un’America che non ha mai visto, un puro portato della sua immaginazione.