Lei pensava al ridicolo spazio di solitudine che li separava e cercava il coraggio di occuparlo con il corpo. Il suo appartamento era appena un paio di isolati più in là e il tempo si consumava in fretta come la strada. Non era solo il tempo di quella sera, era il tempo delle possibilità, dei suoi trentacinque anni incompleti. Nell’ultimo anno, da quando aveva rotto con Martin, aveva cominciato a percepire l’estraneità di quel posto, a soffrire del gelo che seccava la pelle e che non mollava mai veramente, neanche d’estate. Eppure non sapeva decidersi a lasciarlo. Ormai dipendeva da quel luogo, ci si era attaccata con l’ostinazione con cui ci si attacca soltanto alle cose che fanno male.
LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI * PAOLO GIORDANO
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“non so fare il nodo” disse, strascicando le parole.
“mmm, sei proprio imbranato”
La verità è che Alice lo sapeva già.
Non vedeva l’ora di mostrargli che invece lei era capace.
Suo padre gliel’aveva insegnato quando era piccola.
AL mattino le lasciava la cravatta sul letto e poi, prima di uscire, passava davanti alla sua camera e chiedeva : è pronta la mia cravatta?
Alice gli andava incontro di corsa, con il nodo già fatto.
Suo padre abbassava la testa, tenendo le mani giunte dietro la schiena, come se si stesse inchinando di fronte a una regina.
Lei gli metteva la cravatta al collo, lui la stringeva e l’aggiustava un po’.
Parfait, diceva alla fine.
LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI * PAOLO GIORDANO
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“e così sei una fotografa?”
disse [..]
“sì” rispose Alice d’istinto.
se ne pentì subito.
Per il momento era una ragazza che aveva mollato l’università e che gironzolava per le strade scattando foto un po’ a casaccio.
Si domandò se questo bastasse a fare di lei una fotografa, quale fosse il confine esatto fra Essere e Non esser qualcuno.
Si morse il labbro sottile. «Più o meno» aggiunse.
«Posso?» le fece il dottore, aprendo la mano, per farsi dare la macchina.
«Certo.»
Alice srotolò la tracolla dal polso e gliela porse. Lui se la rigirò tra le mani. Tolse la protezione e puntò l’obiettivo prima di fronte a sé e poi in alto, verso il cielo.
«Uao» commentò. «Sembra professionale.»
Lei arrossì e il dottore fece per ridarle la macchina.
«Puoi scattare se vuoi» disse Alice.
«No no, per carità. Non sono capace. Scatta tu.»
«A cosa?»
Fabio si guardò intorno. Volse la testa da una parte e dall’altra, dubbioso. Poi scrollò le spalle.
«A me» rispose.
Alice lo guardò con sospetto.
«E perché dovrei?» gli chiese, con un’inflessione leggermente maliziosa, che le uscì involontariamente.
«Perché così sarai costretta a rivedermi, almeno per mostrarmela.»
Alice esitò un momento. Guardò gli occhi di Fabio, per la prima volta con attenzione, e non riuscì a sostenerli per più di un secondo. Erano azzurri e privi di ombre, puliti come il cielo alle sue spalle e lei ci si trovò dentro spaesata, come se fosse rimasta nuda in una gigantesca stanza vuota.
È bello, pensò Alice. È bello nel modo in cui un ragazzo dev’essere bello.
Puntò il mirino al centro del suo viso. Lui sorrise, per nulla imbarazzato. Non reclinò neppure la testa, come spesso fa la gente di fronte all’obiettivo. Alice aggiustò la messa a fuoco e poi esercitò una pressione con l’indice. L’aria fu spezzata da un clic.
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Alice si voltò con un occhio chiuso e uno nascosto dietro una vecchia macchina fotografica. Mattia fece per tirarsi su.
«Giù» gli ordinò lei. «Ti ho detto di stare fermo.»
Poi scattò. La Polaroid sputò fuori una lingua bianca e sottile e Alice la sventolò per far uscire il colore.
«E quella dove l’hai presa?» le chiese Mattia.
«In cantina. Era di mio padre. Se l’è comprata chissà quando e poi non l’ha mai usata.»
Mattia si mise a sedere sul letto. Alice lasciò cadere la fotografia sul tappeto e gliene scattò un’altra.
«Dài, smettila» protestò lui. «Sembro scemo nelle foto.»
«Tu sembri sempre scemo.»
Scattò di nuovo.
«Mi sa che voglio fare la fotografa» disse Alice. «Ho deciso.»
«E l’università?»
Alice scrollò le spalle.
«Di quella frega solo a mio padre» disse. «Che se la faccia lui.»
«Vuoi mollare?»
«Forse.»
«Non puoi svegliarti un giorno, decidere che vuoi fare la fotografa e buttare via un anno di lavoro. Non funziona così» sentenziò Mattia.
«Già, dimenticavo che tu sei come lui» fece Alice ironicamente. «Sapete sempre quello che bisogna fare. Tu lo sapevi già a cinque anni che volevi fare matematica. Siete noiosi. Vecchi e noiosi.»
Poi si voltò verso la finestra e scattò una foto a casaccio. Lasciò cadere anche quella sul tappeto, vicino alle altre due. Ci salì sopra con i piedi e le calpestò, come se stesse pigiando dell’uva.
Mattia pensò a qualcosa da dire per riparare, ma non gli uscì nulla. Si chinò per sfilare da sotto il piede di Alice la prima foto. La sagoma delle sue braccia, incrociate dietro la testa, stava gradualmente emergendo dal bianco. Si interrogò su quale straordinaria reazione stesse avvenendo su quella superficie lucida e si propose di consultare l’enciclopedia appena tornato a casa.
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Della fotografia Alice amava il gesto più del risultato. Amava aprire il vano posteriore della macchina e srotolare il nuovo rullino di qualche centimetro, quel tanto che bastava per pinzarlo nella guida, pensare che quella pellicola vuota sarebbe presto diventata qualcosa e non sapere ancora cosa, fare i primi scatti a vuoto, mirare, mettere a fuoco, sbilanciarsi avanti e indietro con il busto, decidere di includere o escludere pezzi di realtà come le pareva, ingrandire, deformare.
Ogni volta che udiva il clic dello scatto, seguito da quel leggero fruscio, si ricordava di quando da piccola catturava le cavallette nel giardino della casa in montagna, intrappolandole tra le mani chiuse a coppa. Pensava che con le foto era lo stesso, che ora lei catturava il tempo e lo inchiodava sulla celluloide, cogliendolo a metà del suo salto verso l’istante successivo.
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Al corso le avevano insegnato che la tracolla della macchina va arrotolata due volte intorno al polso. In questo modo, se qualcuno vuole rubartela, è costretto a strapparla via insieme a tutto il braccio. Nel corridoio del Maria Ausiliatrice, dove sua madre era ricoverata, Alice non correva nessun rischio del genere, ma si era abituata a portare la sua Canon in quella maniera.
Camminava radente alla parete bicolore, sfiorandola di tanto in tanto con la spalla destra, per non scontrarsi con nessuno. L’orario di visita del pranzo era appena cominciato e la gente si riversava nei corridoi dell’ospedale come una massa fluida.
Le porte di alluminio e compensato erano aperte sulle stanze. Ogni reparto aveva il suo particolare odore. Oncologia sapeva di disinfettante e di garze imbevute d’alcol.
La stanza di sua madre era la penultima e lei vi entrò. Dormiva di un sonno che non era suo e gli aggeggi a cui era collegata non producevano alcun rumore. La luce era poca e sonnacchiosa. Sopra il davanzale c’erano dei fiori rossi sistemati in un vaso: Soledad li aveva portati il giorno prima.
Alice appoggiò le mani e la macchina sul bordo del letto, lì dove le lenzuola, sollevate al centro dalla sagoma di sua madre, si appiattivano di nuovo.
Veniva ogni giorno a non fare nulla. Le infermiere si occupavano già di tutto. Il suo ruolo era quello di parlare a sua madre, immaginava. In molti lo fanno, si comportano come se i malati fossero in grado di ascoltare il pensiero, in grado di capire chi sta in piedi di fianco a loro e dialoga nella propria testa, come se la malattia potesse aprire tra le persone un diverso canale di percezione.
Alice non ci credeva e in quella stanza si sentiva sola e basta. Di solito restava seduta, aspettava che passasse mezz’ora e poi usciva. Se incontrava un medico chiedeva notizie, che tanto erano sempre le stesse. Le loro parole e le alzate di sopracciglia volevano dire soltanto aspettiamo che qualcosa vada storto.
Quel mattino, però, si era portata una spazzola. La prese dalla borsa e delicatamente, senza graffiarle il viso, pettinò i capelli di sua madre, almeno quelli che non erano schiacciati sul cuscino. Lei era inerte e remissiva come una bambola.
Le sistemò le braccia fuori dal lenzuolo, distese e parallele, in una posa rilassata. Un’altra goccia della soluzione salina nella flebo percorse la cannuccia e sparì nelle vene di Fernanda.
Alice si mise al fondo del letto, con la Canon appoggiata alla sbarra di alluminio. Chiuse l’occhio sinistro e l’altro lo premette contro il mirino. Non aveva mai fotografato sua madre prima di quella volta. Scattò e poi si sporse un po’ più avanti, senza mollare l’inquadratura.
Un fruscio la spaventò quasi e la stanza si riempì improvvisamente di luce.
«Meglio?» disse una voce maschile alle sue spalle.
Alice si voltò. Accanto alla finestra c’era un medico che armeggiava con il cordino delle veneziane. Era giovane.
«Sì, grazie» fece Alice, un po’ intimidita.
Il medico cacciò le mani nelle tasche del camice bianco e rimase a guardarla, come aspettando che continuasse. Lei si chinò a scattare di nuovo, un po’ a casaccio, quasi per accontentarlo.
Starà pensando che sono pazza, si disse.
Invece il medico si avvicinò al letto di sua madre, con disinvoltura. Diede un’occhiata alla cartella e, mentre leggeva, strinse le palpebre, riducendo gli occhi a una fessura. Si avvicinò alla flebo e mosse una rotella con il pollice. Le gocce presero a scendere più velocemente e lui le guardò soddisfatto. Alice pensò che i suoi movimenti avevano qualcosa di rassicurante.
Il dottore le si avvicinò e si ancorò con tutte e due le braccia alla struttura del letto.
«Le infermiere sono fissate» commentò fra sé. «Vogliono buio dappertutto. Manco qui dentro non fosse già così difficile distinguere il giorno dalla notte.»
LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI * PAOLO GIORDANO