IO SO *ANTONIO INGROIA

Possiamo dire, facendo un passo indietro nella storia, che veniamo da una realtà nella quale in Sicilia i capimafia erano le autorità riconosciute. In ogni piccolo centro siciliano c’era il sindaco, il pretore, il parroco, il comandante dei carabinieri e poi c’era l’autorità extraistituzionale: il capomafia. L’anomalia del piccolo centro rappresentava il microcosmo di una realtà molto più estesa. Questo ha avuto un riflesso nella cultura del paese. I testi di diritto sui quali ho studiato dibattevano se la mafia era un’associazione criminale o tutt’al più un’associazione immorale. Questo tipo di cultura giuridica ha svolto un ruolo egemonico nel panorama nazionale. Pian piano, è cresciuta nel paese una consapevolezza collettiva, anche se per un certo periodo il cambiamento ha giustificato la tolleranza del passato, raccontando di una vecchia mafia buona e di una nuova mafia cattiva. Anche all’interno delle élite politico-istituzionali del paese si è registrato un processo evolutivo. In questo processo un settore della magistratura di Palermo è stato un passo avanti, e perciò ha pagato duramente. Falcone e Borsellino, non lo dobbiamo mai dimenticare, erano isolati dentro il Palazzo di giustizia di Palermo. Solo recentemente quella cultura ha contagiato le parti più sensibili della società siciliana e nazionale. Tuttavia, non è mai stato cancellato quell’altro tipo di atteggiamento inclusivo di uno spirito di convivenza con la mafia. Diciamo che le istituzioni spesso hanno fatto antimafia sostenendo una fazione della mafia contro un’altra. È il principio della trattativa. Ma è solo negli ultimi tempi che alcune sorprendenti novità investigative hanno messo al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica un tema rimasto per anni colpevolmente sfocato. È bene essere consapevoli, infatti, che non si tratta di una novità dell’ultima ora. Che dire, ad esempio, dell’uso massiccio della trattativa in passato? Che dire della strumentalizzazione che il neonato Stato unitario fece del potere mafioso sul territorio per frenare le spinte filoborboniche e antiunitarie? E non fu forse frutto di trattative il patto di non belligeranza, reciproco sostegno e copertura, in virtù del quale i gabellotti mafiosi mantennero il loro potere sul territorio?
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Il dato importante, sul quale in questi vent’anni non abbiamo mai adeguatamente riflettuto, non può che suscitare amarezza sconsolata, ma nel contempo va analizzato con realismo: la chiave di lettura della rivolta collettiva nella quale miracolosamente si ritrovarono unite tutte le istituzioni, la politica a fianco della magistratura, non fu né la morte di Falcone né la morte di Borsellino, ma l’omicidio di Salvo Lima. Il vero cataclisma per la classe politica è stato l’omicidio Lima. Le minacce di golpe infatti arrivano dopo l’omicidio Lima, non dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. Questo ci fa capire molto dello spirito della politica antimafia in Italia e direi persino dell’essenza del potere mafioso.
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Un giovane nato nell’anno delle stragi Falcone e Borsellino potrebbe pensare che l’Italia sia stata sempre questa. Cosa direbbe a un ventenne di oggi per spiegare che l’Italia non è sempre stata berlusconiana?

Ai giovani, oggi, vorrei ricordare che la storia di questo ventennio ha avuto inizio con alcuni eventi fondativi, tra cui le stragi, mirate ad assassinare uomini che rappresentavano un modello di cittadino diverso, e un’Italia diversa da quella nella quale loro sono cresciuti. È come se in quelle stragi fosse stata uccisa la possibilità di un’Italia diversa. Da quelle stragi è nata la trattativa che ha condizionato pesantemente l’ultimo ventennio, poiché ha costruito la Seconda Repubblica su un patto criminale. Vorrei dire ai giovani che è fondamentale recuperare la memoria della storia italiana, al di là di questo ventennio. Vorrei dire loro che devono assolutamente provare a ricominciare dal patrimonio, andato in parte disperso in quel ’92, con lo stragismo. Il compito dei giovani, oggi, è quello di recuperare questo tesoro smarrito, con il nostro aiuto, per costruire un futuro di legalità. L’Italia migliore è lì, in quel pezzo di storia che le stragi hanno tentato di cancellare. Da lì, da quel patrimonio etico e morale, bisogna ricominciare.
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