IL SECONDO LIBRO DELL’INQUIETUDINE * FERNANDO PESSOA

 

Non il piacere, non la gloria, non il potere…la libertà, unicamente la libertà..

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Sono un pozzo di gesti che non si sono del tutto abbozzati neppure in me stesso, di parole che non ho pensato mentre già disegnavano le mie labbra, di sogni che ho dimenticato di sognare…sono rovine di edifici che non sono mai stati nient’altro se non queste rovine, che qualcuno si è stancato, a metà dell’opera, di pensare di voler costruire.
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Collaborare, unirsi, agire insieme agli altri è un impulso metafisicamente morboso. L’anima che è data all’individuo non deve essere imprestata per le sue relazioni con gli altri. Il fatto divino di esistere non deve essere consegnato al fatto satanico di coesistere.

Agendo insieme agli altri perdo, perlomeno, una cosa – che è agire da solo.

Quando mi do, anche se sembra che mi stia espandendo, mi limito. Convivere è morire. Per me, solo la mia autocoscienza è reale; gli altri sono fenomeni incerti in questa coscienza, e sarebbe morboso imprestarle una realtà così autentica.

Il bambino, che vuole a tutti i costi fare come gli pare, si posiziona più vicino a Dio, perché vuole esistere.

La nostra vita di adulti si riduce al fare l’elemosina agli altri. Viviamo tutti dell’elemosina altrui. Sperperiamo la nostra personalità in orge di coesistenza.

Ogni parola pronunciata ci tradisce. L’unica comunicazione tollerabile è la parola scritta, poiché non è una pietra in un ponte fra anime ma il raggio di una luce fra gli astri.

Spiegare è non credere. Ogni filosofia è una diplomazia sotto forma di eternità , come la diplomazia, una cosa sostanzialmente falsa, che esiste non come cosa, bensì completamente e assolutamente per un fine.

L’unico destino nobile per uno scrittore che si pubblica consiste nel non ottenere la celebrità che merita. Ma il vero destino nobile è quello dello scrittore che non viene pubblicato. Non intendo colui che non scrive, perché altrimenti non sarebbe uno scrittore. Intendo colui che per natura scrive e per condizione spirituale non offre ciò che scrive.

Scrivere è rendere oggettivi i sogni, è creare un mondo esteriore come premio evidente della nostra indole di creatori. Pubblicare è offrire agli altri questo mondo esteriore; ma a che pro, se il mondo esteriore comune a tutti noi e a loro è il “mondo esteriore” reale, quello della materia, il mondo visibile e tangibile? Cosa c’entrano gli altri con l’universo che esiste in me?
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Sento il tempo senza vederlo…
Sono liberato e perduto.
Sento.
Raffreddo la febbre.
Sono io.
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Ho conquistato, palmo a palmo, il terreno interiore che era nato mio. Ho reclamato, a piccoli spazi, il pantano in cui mi ero fermato, nullo. Ho partorito il mio essere definitivo, ma mi sono estratto con il forcipe da me stesso…

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E, oggi, pensando a ciò che è stata la mia vita finora, mi sento come un qualsiasi animale vivo, trasportato in una cesta che piega il braccio, fra due stazioni suburbane. L’immagine è stupida, però la vita che essa definisce è ancora più stupida. queste ceste normalmente hanno due coperchi, come semiovali, che si sollevano un po’ dalle due estremità ricurve se l’animale si agita. Ma il braccio di chi trasporta, in parte appoggiato lungo l’innervatura centrale, non permette a questa cosa così debole di alzare altro che le estremità inutili, come ali di farfalla che vanno indebolendosi.

Mi sono dimenticato, con la descrizione della cesta, che stavo parlando di me. La vedo nitidamente, e anche il braccio grasso e bianco e bruciato dal sole della domestica che la trasporta. Non riesco a vedere la domestica al di là del braccio e della sua peluria. Non riesco a sentirmi bene se non – all’improvviso – una grande frescura di… di… di quelle stecche bianche e nastri di  con cui si tessono le ceste e dove mi agito, animale, fra due fermate che sento. Fra di esse riposo su quella che pare essere una panchina, e sento che parlano là fuori dal mio cesto. Dormo perché mi calmo, finché non mi solleveranno nuovamente, giunto alla fermata.
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