Sei veramente sicuro di ciò che ricordi?
MARCO DE FRANCHI, IL GIORNO RUBATO
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Questo è tutto quel che ricordo.
Un campo di grano. La notte. Niente luna, solo un vago chiarore. Un vento leggero, tiepido, che proviene chissà da dove e muove le teste delle spighe, rendendole simili a una processione di anime dolenti che si lamentano nel buio.
Io sono immerso in questo mare di sussurri, sdraiato nel grano, il sapore della terra in bocca. Non oso sollevare la testa, non dopo aver sentito quel rumore, quella vibrazione bassa che proviene da un punto imprecisato più avanti, nel campo. Come un sospiro profondo, ritmato. Mi terrorizza.
Non c’è molto altro… Ah, sì: la mia macchina digitale. La stringo tra le mani, mi aggrappo a lei come a una scialuppa; è il mio contatto con la realtà e anche il motivo, credo, per il quale mi trovo qui: se riesco a scattare fotografie dimostro che ho ragione. Documentare l’incredibile è il mio compito, per quanto difficile: non mi guadagno da vivere senza sforzo.
L’uomo che è con me mi fa cenno di no; dice che non è il momento, che è meglio restare nascosti nell’erba. È in preda al panico. Si accuccia in un angolo, abbracciandosi le ginocchia, e trema come una foglia.
Io lo guardo, perplesso. Cosa gli prende? Perché questa paura? Il suo compito è terminato. Mi ha accompagnato dove doveva; adesso se vuole può anche andarsene, mettersi al sicuro. Glielo dico, ma sembra che non mi senta. Vedo il bianco dei suoi occhi.
Oh, basta… Meglio dimenticarlo. Mi concentro invece su quello strano suono. Pare ci siano voci che si intrecciano nel respiro; sono qui, accanto a noi, appena oltre il sipario di spighe mature.
Prendo coraggio e mi sollevo, dapprima in ginocchio, prestando attenzione a non fare più rumore di quanto necessario. Il frusciare del grano diventa un frastuono, colpa di questo vento improvviso. Controllo la Sony: è carica. Il flash produce un sibilo tenue, che aumenta d’intensità. Sono pronto.
Ora leverò la testa oltre la superficie dell’oceano vegetale; guarderò nel buio e punterò il led rosso della fotocamera verso chi o cosa procede nel grano. Verso chi sta disegnando nel grano.
Mi muovo lento, impacciato; spezzo alcuni steli e il rumore è come uno sparo.
Il mio accompagnatore si copre il volto con le mani.
Il respiro tra le spighe alza il tono, diventa un cupo ansimare. Poi si ferma. Scompare. Resta solo il frusciare del vento e il battere sordo del mio sangue.
Mi muovo, più veloce che posso, e punto l’obiettivo.
Lo vedo! Maledizione, so che lo vedo…
Il fatto è che non rammento altro. Mi resta il sapore della sorpresa.
Perché poi, bang!, diventa tutto nero.
Questo è ciò che ricordo.
MARCO DE FRANCHI, IL GIORNO RUBATO
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Finalmente sono a casa.
L’odore delle mie cose mi accoglie e ne sono felice. Vivo separato dal mondo e possiedo quel tanto che basta per apprezzare una moderata solitudine; per qualcuno sono già oltre il limite dell’eremitaggio, ma non è così, lo giuro. Il mio regno si trova in una verdissima valle incastonata tra boschi e montagne.
MARCO DE FRANCHI, IL GIORNO RUBATO
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Un infarto… Di cosa sta parlando? Un attimo fa mi trovavo al centro di un campo di grano. Un cerchio imperfetto mi circondava e il cuore non mi doleva, stavo magnificamente… Un attimo fa ero Dio, credo.
Cerco di capire, di replicare: – Ero nel grano e… Dove sono ora? E l’uomo che era con me?
Mi blocco quando leggo lo stupore sul suo volto. La mia storia non è in sintonia con la sua: sono un esperto nel genere, è difficile che la gente creda a uno scrittore che racconta di mostri…
— Lei era solo – mormora il medico con accondiscendente perplessità – e con lei non c’era nessun uomo, né mi risulta che si trovasse in un campo di grano.
Ora chissà perché Doctor Rictus non sorride più. Forse la mia reazione non rientra nei comportamenti previsti dalla sua diagnosi; d’altronde ha detto che ho avuto un infarto, e io so che non è vero, che sto bene. Però…
— Chi devo ringraziare? Chi ha chiamato i soccorsi?
Rictus e il suo staff si consultano con lo sguardo: ho posto una domanda proibita? C’è qualcosa che non devo sapere?
— Un infarto, va bene – concludo. Per adesso, basta così.
Voglio dormire ancora. Riposare. Poi capirò, o almeno lo spero.
MARCO DE FRANCHI, IL GIORNO RUBATO
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Sono a casa… Ma la gioia sfuma davanti a un mucchio di lavoro arretrato. Idee da mettere in ordine. Appunti da sistemare. Un nuovo libro da terminare. E poi ho intenzione di tornare in quel paesino tra i campi di grano, dove c’è ancora qualcosa da cercare. E devo fare i conti con questo strano infarto di cui non ho memoria: dovrei chiamare il mio medico per sottoporgli un paio di quesiti, magari per chiedergli come mai non si è mai accorto della mia presunta cardiopatia…
Invece non faccio nulla di tutto questo: mi sdraio sul mio divano, accendo il televisore, do fondo alle scorte alimentari, programmando di passare così i prossimi giorni.
MARCO DE FRANCHI, IL GIORNO RUBATO
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Eppure Luca è morto. E quando suo padre me lo ripete gli occhi di sua moglie lo fulminano, con ira spaventosa.
È morto: suo padre me lo dice ancora una volta, come se lui stesso non credesse a una simile assurdità. Mi affianca toccandomi leggermente un gomito, quasi avesse paura che io possa fuggire: — Lei lo conosceva?
Non so cosa rispondergli. Certo, non posso confessargli che mi ha telefonato qualche ora fa per darmi appuntamento qui.
Non prima delle 17. Sa, devo morire.
MARCO DE FRANCHI, IL GIORNO RUBATO
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