«Forse il problema è proprio questo. Ho paura di stare al mondo.»
«Io credo che lei debba essere fiducioso. Quando una situazione migliora, cioè cambia, gli scossoni si sentono. È normale che a qualche giorno di vera e propria euforia seguano momenti meno euforici. Nel nostro lessico si parla di momenti disforici. Quando arrivano è un po’ come finire sotto un’onda. La regola fondamentale è non farsi prendere dal panico, non fare resistenza perché è inutile, e aspettare che passi.»
«Passa?»
«Quasi sempre. Lei del resto dovrebbe sapere bene com’è, finire sotto una grande onda.»
«Si perde del tutto il senso della posizione. Non sai dov’è il sopra e dov’è il sotto. Non hai più nessun controllo dei movimenti e del tuo stesso corpo.»
«Come se le regole dello spazio fossero sospese?»
«Sì, è esatto. Come se le regole dello spazio venissero sospese»
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E poi c’erano le passeggiate.
Il dottore gli aveva suggerito di camminare a lungo. Tanto a lungo da tornare a casa stanco o, ancora meglio, esausto. Lui aveva manifestato tutto il suo scetticismo, ma si era adeguato, come ci si adegua a una prescrizione medica – e del resto cos’era, se no? – e quasi subito si era reso conto, con stupore, che
per un motivo o per l’altro le passeggiate funzionavano.
Si concentrava sui passi, ripetendo mentalmente la sequenza dell’azione. Tallone, punta, spinta, slancio. E di nuovo tallone, punta, spinta, slancio. All’infinito, come un mantra.
Quella inusuale consapevolezza produceva un effetto ipnotico e un drenaggio degli umori cattivi.
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camminava anche tre, quattro ore di seguito e sentirsi stanco alla fine sembrava una cosa sana, diversa dallo sfinimento e dalla nebbia dei mesi precedenti.
Non è che non pensasse a nulla, durante quelle passeggiate. Questa, certo, sarebbe stata la cosa migliore. Però il passo rapido e la concentrazione sul movimento impedivano ai pensieri di restare troppo attaccati alla sua testa. Gli venivano in mente delle cose ma subito scivolavano via per lasciare il posto ad altre.
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Questa notte ho visto mio padre. Detta così non sembra una cosa troppo strana, che uno veda suo padre, anche se di notte.
Il fatto è che lui è morto.
Quattro anni fa è uscito di casa dopo aver litigato con mamma e non è più tornato. Mi hanno detto che era morto solo molto tempo dopo. Avevo sette anni e mezzo.
Questa è stata la prima volta che l’ho sognato da quando è andato via. Nel sogno era sorridente – lui non sorrideva spesso – e non so perché mi ha ricordato quando mi aveva portato allo zoo per il mio settimo compleanno, l’ultimo che abbiamo passato insieme.
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Per diverse notti non ho sognato nulla, anche se forse questa è una frase sbagliata: ho letto su una rivista di scienza che non esistono notti in cui si dorme e non si sogna. Pare che sogniamo tutte le notti, solo che per varie ragioni, a volte ce lo ricordiamo e altre volte no.
Allora forse è più esatto dire che non mi ricordo cosa ho sognato per diverse notti, anche se almeno in un caso non devo aver fatto sogni molto belli, perché mi sono svegliato con un senso di tristezza che ci ha messo un po’ a passarmi.
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Se Ginevra mi rivolge la parola, nella vita reale, io divento rosso e balbetto e sembro ancora più goffo e impacciato del solito. Figuriamoci se dovesse abbracciarmi o addirittura darmi un bacio. Nel sogno me la sono cavata meglio, anche se ero emozionato lo stesso.
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Roberto tornò in mente la cocaina. La consistenza fine, il colore – bianco o rosa –, l’odore un po’ medicinale. Se la ricordava come se ne avesse avuto un mucchietto proprio lì davanti, sulla scrivania del dottore. Un ricordo come uno schiaffo.
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Abito scuro, camicia scura, cravatta scura, basettoni, accendino d’oro da mezzo chilo, orologio d’oro da un chilo. Sembrava una caricatura. Con lui c’erano due scimmioni che gli facevano da guardaspalle.
Caricature anche loro. Comunque quello mi disse che doveva parlarmi. Da solo. La ragazza – Agnese si chiamava, me la ricordo bene – era una che sapeva come comportarsi e prima ancora che lui finisse di parlare si era già dileguata. Allora con il tizio ci sedemmo al tavolino di un privé – i due gorilla si
tennero a distanza – e quello ordinò una bottiglia di champagne da trecentomila lire per impressionarmi. Un pagliaccio
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Ricordare e pensare a volte non sono attività benefiche.
Il dottore glielo aveva detto spesso. Non bisogna lasciarsi intrappolare dai pensieri o dai ricordi.
Quando arrivano bisogna osservarli con distacco e lasciarli scivolare via.
I pensieri restano con noi solo se li tratteniamo, diceva. Per spiegarsi gli aveva parlato di una trappola
adoperata in una regione dell’India per catturare certe scimmie. La trappola ha un funzionamento semplice e micidiale. È una specie di nassa con un’apertura stretta e del cibo all’interno. Il diametro dell’apertura consente alla scimmia di infilare la mano, ma le impedisce di tirarla fuori chiusa a pugno.
Così, quando la scimmia afferra il cibo e poi cerca di estrarre la mano, non ci riesce. Se lasciasse andare il cibo riuscirebbe a liberarsi; siccome non lo lascia andare, rimane intrappolata.
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Quando mamma mi ha svegliato, ha detto che nel sonno ripetevo questa frase: non dobbiamo perdere un minuto di più.
Mi ha chiesto cosa volevo dire. Per cosa non bisognava perdere nemmeno un minuto? Mi sono tirato su, ho sbadigliato e ho detto che stavo sognando qualcosa che avevo già dimenticato.
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