Allora, solo allora, Jun Rail sollevò il capo dallo scrittoio e girò lo sguardo verso la porta chiusa.
Jun Rail.
IL volto di Jun Rail.
Quando le donne di Quinnipak si guardavano allo specchio pensavano al volto di Jun Rail.
Quando gli uomini di Quinnipak guardavano le loro donne pensavano al volto di Jun Rail.
I capelli, gli zigomi, la pelle bianchissima, la piega degli occhi di Jun Rail.
Ma più di ogni altra cosa – sia che ridesse o urlasse o tacesse o semplicemente stesse li, come ad
aspettare – la bocca di Jun Rail.
La bocca di Jun Rail non ti lasciava in pace.
Ti trapanava la fantasia, semplicemente.
Ti impiastricciava i pensieri. “Un giorno Dio disegnò la bocca di Jun Rail. É lì che gli venne
quell’idea stramba del peccato.” Così la raccontava Ticktel, che sapeva di teologia, perché aveva
fatto il cuoco in un seminario, così almeno diceva lui, era una prigione dicevano gli altri, stupidi è la
stessa cosa diceva lui.
Nessuno potrebbe mai riuscire a disegnarlo, dicevano tutti.
IL volto di Jun Rail, ovviamente.
Stava nella fantasia di chiunque.
***
Così fa il destino: potrebbe filar via invisibile e invece brucia dietro di sé, qua e là, alcuni istanti, fra
i mille di una vita.
Nella notte del ricordo, ardono quelli, disegnando la via di fuga della sorte.
Fuochi solitari, buoni per darsi una ragione, una qualsiasi.
***
E pur tuttavia nessuno poteva realmente dimenticare ciò che tutti sapevano: e cioé tutta una miriade
di piccoli fatti, e sfumature, e visibili concomitanze che gettavano una luce indubbiamente
differente su quell’assodato e insondato fenomeno che erano i viaggi del signor Rail.
Una miriade di piccoli fatti, e sfumature, e visibili coincidenze che neppure più ci si dava pena di
citare da quando, come mille rivoli in un unico lago, si erano dispersi nella limpida verità di un
pomeriggio di gennaio: quando il signor Rail, tornando da uno dei suoi viaggi, non tornò solo, ma
arrivò con Mormy, e guardando Jun negli occhi le disse semplicemente – posando una mano sulla
spalla del ragazzino – le disse – proprio mentre il ragazzino fissava il volto di Jun e la sua bellezza –
disse: – Si chiama Mormy ed è mio figlio.
***
Due pensieri non riempiono che un attimo
***
E fu un attimo tutto ciò che quel minimo universo di persone, ritagliato via dalla più generale
galassia della vita, e piegato su se stesso dall’emozione di un apparente scandalo – e fu un attimo
tutto ciò che quel minimo universo di persone concesse al silenzio.
***
Aveva otto anni e non sapeva bene cosa gli stava succedendo.
Però aveva stampate negli occhi due immagini: il volto di Jun, il più bello che avesse mai visto, e la
tavola apparecchiata giù, in sala da pranzo.
I tre candelieri, la luce, il collo stretto di bottiglie sfaccettate come diamanti, le salviette con
misteriose lettere ricamate sopra, il fumo che saliva dalla zuppiera bianca, il bordo dorato dei piatti,
la frutta tutta lucida posata su grandi foglie in una coppiera d’argento.
Tutte queste cose e il volto di Jun.
Gli erano entrate negli occhi, quelle due immagini, come l’istantanea percezione di una felicità
assoluta e incondizionata.
Se le sarebbe portate dietro per sempre.
***
Perché c’era qualcosa, tra quei due, qualcosa che in verità doveva essere un segreto, o qualcosa di
simile.
Così era difficile capire ciò che si dicevano e come vivevano, e com’erano. Ci si sarebbe potuti
sfarinare il cervello a cercar di dare un senso a certi loro gesti.
E ci si poteva chiedere perché per anni e anni.
L’unica cosa che spesso risultava evidente, anzi quasi sempre, e forse sempre, l’unica cosa era che in
quel che facevano e in quello che erano c’era qualcosa – per così dire – di bello.
Così.
***
Eppure, per quanto indubitabilmente sia meravigliosa la luce della sera, c’è qualcosa che ancora
riesce ad essere più bello della luce della sera, ed è per la precisione quando, er incomprensibili
giochi di correnti, scherzi di venti, bizzarne del cielo, sgarbi reciproci di nubi difettose, e
circostanze fortuite a decine, una vera collezione di casi, e di assurdi – quando, in quella luce
irripetibile che è la luce della sera, inopinatamente, piove.
C è il sole, il sole della sera, e piove.
Quello è il massimo.
E non c’è uomo, per quanto limato dal dolore o sfinito dall’ansia, che di fronte a un’assurdità del
genere non senta da qualche parte rigirarsi un’irrefrenabile voglia di ridere.
Poi magari non ride, veramente, ma se solo il mondo fosse un sospiro più clemente, riuscirebbe a
ridere.
Perché è come una colossale e universale gag, perfetta e irresistibile.
Una cosa da non crederci.
***
“. . come sarebbe a dire ‘per caso’?… tu credi davvero che ci sia qualcosa che succede ‘per caso’?