Gran parte di noi insiste a comportarsi come se l’amore non fosse una realtà acquisita, ma un quid latente in ogni singolo essere umano, che si limita ad aspettare una sorta di mistica età della ragione, per poi emergere e affermarsi in tutta la sua pienezza. Molti attendono questa «età» per tutta la vita. Si direbbe che in noi operi il rifiuto di ammettere che nella stragrande
maggioranza si percorra l’intero arco della nostra esistenza sforzandoci di trovare l’amore, tentando di vivere in seno all’amore stesso, e morendo senza essere riusciti a trovarlo davvero.
Non manca chi tiene in spregio e accantona l’amore, considerandolo un’ingenua e romantica sovrastruttura della nostra civiltà. Altri tendono marcatamente a fornirne un’immagine poetica, e non esitano a dichiararci che «l’amore è tutto», che «l’amore è il canto degli uccelli, la luce che balena negli occhi di una fanciulla in una notte estiva».
Altri ancora, dogmatici ed enfatici, proclamano che «Dio è l’Amore». Qualcuno infine, prendendo le mosse dalle proprie esperienze personali, ed esclusive, vi dice che «l’amore è l’intenso attaccamento emotivo che noi proviamo per un’altra persona». E così via. In un certo numero di casi, avrete agio di constatare che le persone non hanno mai ritenuto di porsi qualche interrogativo sull’amore, e tantomeno di definirne la sostanza, così come rifiutano categoricamente l’ipotesi di meditare sul significato dell’amore. Per costoro,
l’amore non è un fenomeno sul quale occorra riflettere, ma una semplice realtà che va vissuta. Pertanto ogni singolo individuo vive l’amore entro i limiti ch’egli stesso si pone, e non sembra in grado di collegare la solitudine e la confusione che ne derivano a una
carente, inadeguata conoscenza dell’amore stesso. Se un uomo desidera conoscere a fondo un’automobile, non vi è dubbio che si disponga a esaminarne diligentemente ogni suo aspetto. Se la moglie di costui vuol diventare una cuoca provetta, non esita a studiare
l’arte culinaria e fors’anche a frequentare un corso di gastronomia. Per contro, non sembra
ovvio a costui che, se realmente vuol vivere amando, deve dedicare allo studio dell’amore un lasso di tempo non inferiore quantomeno a quello da lui riservato alla meccanica di un’auto, o da sua moglie ai segreti per diventare una cuoca da gourmet. Nessun cuoco,
nessun meccanico sarebbe mai disposto a credere che potrebbe bastargli di «voler» conoscere il suo campo d’azione preferito per diventare un esperto del medesimo
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– Non possiamo dare ciò che non possediamo. Per dare amore, occorre possederlo.
– Non possiamo insegnare ciò che non comprendiamo. Per insegnare ad amare bisogna capire l’amore.
– Non possiamo sapere ciò che non studiamo. Per studiare l’amore bisogna viverlo nella realtà.
– Non possiamo apprezzare una cosa che non conosciamo. Per conoscere l’amore dobbiamo saperlo recepire.
– Non possiamo dubitare di una cosa nella quale vogliamo ‘aver fiducia. Per aver fiducia nell’amore bisogna realmente credervi.
– Non possiamo accettare una cosa per la quale non siamo disposti a cedere. Per cedere all’amore dobbiamo esser vulnerabili all’amore.
– Non possiamo vivere la realtà di una cosa alla quale non ci dedichiamo. Pervotarci all’amore è necessario che l’amore proliferi costantemente in noi.
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milieu che ci compete, ecco che ci troviamo in difficoltà.
Mentre lavorava alla stesura del suo interessante saggio sul linguaggio e la consapevolezza concettuale, Timothy Leary ha definito le parole «il marchio della coscienza esterna». Ogni qual volta, spiega Leary, un genitore o i componenti di una comunità societaria insegnano a un bambino un nuovo simbolo, essi gli indicano il suo duplice valore intellettuale ed emozio-nale. Tale contenuto trova peraltro dei limiti nell’atteggiamento e nel modo di «sentire» proprio a quei genitori e a quella società.
Questo processo inizia troppo presto perché il bambino possa dire gran che in merito a ciò che le parole significheranno per lui. Una volta «cristallizzati», determinati atteggiamenti, una certa gamma di reazioni emotive nei confronti delle persone e delle
cose cui le parole si riferiscono, diventano stabili e in molti casi addirittura irreversibili.
Di conseguenza il bambino non si limita ad assimilare il contenuto delle parole, ma assume nei riguardi delle stesse specifici atteggiamenti. Ed è così che acquistano fisionomia i suoi atteggiamenti verso l’amore.
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Un giorno un ragazzo ha detto, durante il corso d’amore: «Vorrei che mi amasse di più e non avesse tanto bisogno di me».
È così che molti, moltissimi di noi non imparano affatto ad amare. Giochiamo all’amore, imitiamo gli innamorati e gli amanti, consideriamo l’amore alla stregua di un banale passatempo. Non può sorprendere che tanti di noi muoiano di solitudine, siano divorati dall’ansia, si sentano oppressi da un senso di incompiutezza e di inappagamento, e ciò anche quando avvenga che si viva in un clima di apparente sodalizio e intimità.
Ecco perché aneliamo a trovare altrove qualcosa di diverso, qualcosa di più, e in quell’«altrove» ci illudiamo costantemente di trovarlo. Ma… «È tutto qui?» dice la canzone.
C’è invero qualcos’altro; ed è semplicemente questo: l’illimitato potenziale dell’amore in seno al quale ciascuno desidera ardentemente essere riconosciuto, attende di evolversi, aspira a crescere e a maturare.
Non è mai troppo tardi per imparare qualcosa, allorché disponiamo di un potenziale che ci permette di accedervi. Se volete imparare ad amare, dovete disporvi innanzitutto a comprendere in che cosa l’amore consiste, quali siano le qualità che caratterizzano una
persona capace di ricevere ed elargire amore e come tali virtù si sviluppino. Ogni individuo è potenzialmente in grado di amare, ma questo potenziale non è mai traducibile in atto senza un arduo e preciso impegno personale. E tuttavia questo impegno non si traduce in sofferenza. L’amore s’impara soprattutto nella gioia e nella serenità, in un clima di rivelazione e di pace, a livello di vita quotidiana.